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Nel monastero kosovaro di Decani

Nel monastero kosovaro di Decani il martello di Noé suona per la pace.

E’ un paradiso blindato, protetto dagli italiani dell’Onu. Anche gli Ottomani difendevano i monaci. Cambia il rapporto col tempo e tutto diventa millenario.

Quattro del mattino, un ticchettio perfido sveglia il monastero, un colpo forte e tre leggeri, regolari e ravvicinati come lo stantuffo di una locomotiva, il timbro secco di un picchio che trivella il tronco. Che roba è? Ora ricordo. A cena ci hanno avvertito: “Prima dell’alba sentirete il Symandron”. Mi sporgo dalla finestra e nella notte chiara, sul prato dentro le mura, vedo l’ombra allampanata di un monaco che gira attorno alla chiesa battendo una tavola con un martelletto di legno. E’ lui il picchio mattiniero.

Tòc-tic-tic-tic, tòc-tic-tic-tic…. Se senti questo rumore verso la Terrasanta, non puoi sbagliare: è un monastero ortodosso. Noi siamo a Decani, nella terra dove è nata l’ortodossia serba e poi s’è incendiata la Jugoslavia: il Kosovo, detonatore dello scontro tra slavi e albanesi. Decani, la Cluny dei Balcani, paradiso blindato, protetto dagli italiani sotto bandiera Onu. Oltre il porticato vedo le loro sigarette accese nella foresta; son lì a pattugliare la strada. Senza di loro Decani non esisterebbe: nel 2004, centodieci luoghi santi sono stati incendiati o dinamitati per ritorsione, dopo i massacri serbi del ’99. Ho visto, arrivando qui, le loro terribili macerie.

Nelle camerate la gente si sveglia. Solo Moni Ovadia russa beato. Siamo arrivati insieme, ma lui nicchia ancora nel lettone per pellegrini. Esco in corridoio, accanto alla scarpiera c’è un monaco che si mette i sandali. Gli chiedo: “Za sto sluzi cekic?”, a che serve il martello? Lui: “Serve a Noé, per chiamare gli animali nell’Arca”. Fantastico, siamo già in Oriente. Il frate non usa il passato ma il presente, dice “Noé” come se parlasse di suo zio. E’ già cambiato il rapporto col tempo. Ogni gesto diventa millenario. 

Con i blindati attorno, il senso del martelletto è di una folgorante semplicità. Vuol dire: dentro è l’Arca, la salvezza. Fuori il diluvio, i briganti. Ma il Symandron è anche un espediente per sopravvivere. Di notte, nessuno lo nota. Le campane, invece, irriterebbero gli albanesi, che vedono nel monastero solo un segno del potere serbo maledetto. La guerra può essere anche acustica. Chi perde, tace. Chi vince, fa rumore. Attorno a Sveti Jovan Bigorski, per esempio, un idillico monastero in Macedonia (lì intorno si è girato “Prima della pioggia”, film-simbolo della maledizione balcanica), gli albanesi hanno piazzato altoparlanti da stadio, e appena i frati vanno a dormire, li massacrano di decibel. Non preghiere del muezzin. Rock duro per spaccare i timpani. Gli albanesi hanno una religione sola: l’Albania.
Profumo di legna, rumore del fiume, il cielo rischiara. Decine di ombre traversano il chiostro per la funzione. Monaci, neri e barbuti come briganti, alti come giocatori di basket. Teodosij il priore, severo, di pelo grigio. Ksenofont e Andrej, due visi da “Signore degli Anelli”. Sava, il vice-priore, col biondo codino. Avvakum, taciturno, un sorriso da gnomo. Abitano un mondo di tagliagole, ma emanano una mitezza da boscaioli.

Nella chiesa una luce azzurra crea un effetto lanterna magica sulle pareti affollate di santi, immagini vecchie di sei secoli. Pie donne, profughe dai villaggi, si inchinano davanti a un sarcofago posto su due supporti di pietra, strisciano sotto carponi. E’ la tomba di Stefano di Decani, con dentro un terribile segreto. Fu accecato dal padre, poi assassinato dal figlio. In Oriente è facile trovare tracce di turpitudini nei luoghi più idillici. Sbudellamenti, defenestrazioni, gente impalata. Forse non esiste pace senza il sangue del martirio.

Il sole sorge e l’abside piena d’incenso s’incendia. Molte chiese medievali guardano a Est per celebrare il rito della luce, ma qui lo spettacolo è moltiplicato dall’iconostasi, il tramezzo che nel mondo ortodosso separa i fedeli dalla parte più sacra del rito. Oltre la paratìa, dove intravvedi i monaci che entrano, escono, s’incurvano, si prostrano, tolgono e rimettono fulgidi paramenti, l’incendio diventa fuoco greco, ti cola oro fuso negli occhi, deflagra nella chiesa disegnando un ventaglio di spade di luce. Pentagrammi, quasi, dove il fiato dei cantori traccia nella nube di fumo aromatico le note di un canto antico d’Oriente.

Si fa colazione sul loggiato, un ballatoio di legno antico, lungo più di cinquanta metri. Menù: mousse di fragole con panna, latte acido, zuppa di verdure, grappa di prugne. Arriva Moni, è folgorato dalla tavola imbandita, dal ruscello che brilla nell’erba, da questo sublime equilibrio che, dice, “può essere solo frutto della cultura giudaico-cristiana”, da questa pace trovata proprio nella terra della discordia. “Che vita idiota la nostra… Guarda qui, invece, guarda. Ogni gesto è saturo di senso, sacralità. Mangiare, bere, apparecchiare la tavola”.

Si parla del Turco, che fu signore dei Balcani. Del suo pugno di ferro. Ma i monaci ci spiazzano: “Gli Ottomani? Ci davano scorta armata, come voi italiani”. La scorta contro chi? “I signorotti albanesi”. Già, ma al Sultano che importava di voi? “Avevamo un segreto. Allevavamo i falchi da caccia per la corte di Istanbul”. Straordinario. Viva i falchi, penso, riapriamo l’allevamento. E viva gli imperi, casa comune dei popoli. Viva gli Ottomani, viva gli Asburgo. Abbasso le nazioni, regressioni infantili delle culture.

Dal fondovalle piove l’ultima luce, purissima. La chiamano “Sviete Tihi”, luce silente. Poi, appena il sole scende dietro le montagne, la valle ha un brivido, si riempie di vento e odore di neve. Le donne apparecchiano, dalle cucine arriva profumo di pane. Sul tavolo niente carne: nella terra delle grigliate, il monastero è vegetariano. Patate fritte, un paté di melanzane chiamato Ajvar, olive, formaggio di capra, vino, uova strapazzate, scalogno. E già si preparano dolcetti e caffè.

Soldati italiani parlottano nel sagrato. Devono scortare il vescovo che parte per Belgrado. Qui si viaggia solo di notte, sempre per non irritare gli albanesi. Vigilanza armata, auto con vetri affumicati. E non si fa affatto la strada più breve. Bisogna attraversare il Montenegro, passando due volte le montagne. “D’estate è uno scherzo” sorride Andrej. “E’ d’inverno che capisci quanto siamo isolati. Lassù trovi solo neve, ghiaccio, nebbia. E contrabbandieri”.

Sento dire che l’Onu se ne andrà da queste terre già nel 2006 e che l’Italia vuole restare in Afghanistan per altri dieci anni. Pare che l’idea sia degli stessi partiti che ci asfissiano con le “radici cristiane” dell’Europa. Già due anni fa qualcuno da Roma aveva dato ordine di allentare la sorveglianze ai monasteri in Kosovo, e l’ordine fu revocato in extremis solo grazie all’indignazione di un funzionario Onu che avvertì la stampa by-passando la politica.

Esce la luna, il vento cala, nella valle resta solo il rumore del fiume, si tira tardi chiacchierando sul loggiato. E’ tutto così semplice: se i nostri se ne vanno, non ci sarà più cristianesimo in quell’angolo dei Balcani. Metto sul tavolo un bel cardo viola a stelo lungo, trovato nel bosco: Andrej lo benedice, consiglia di portarlo a Gerusalemme come portafortuna, facendolo essiccare a testa in giù. Le pie donne sparecchiano, preparano la zuppa per il piantone italiano che smonta. Avvakum gioca con la Brojanica, il rosario nero a cento nodi.

Il pellegrino Ovadia s’imbarca in una discussione tosta su ermeneutica e cabala. Ma ha filo da torcere, la barbuta masnada è diabolicamente colta. Poco prima, ha trovato un frate lavandaio che discettava di Tarkowski. Un ultimo grappino, ed ecco che le ombre della notte ci regalano la visione finale. Una fila di pellegrini italiani con bisacce, ceri accesi e bastoni da viaggio, che escono dal bosco e bussano al portone, dopo aver traversato mare e montagne solo per ritrovare Decani, perla dimenticata sulla strada di Gerusalemme.

Foto di Paolo Latella

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